La stanza di Sherlock

Sinister. La città delle ombre di Gareth Rubin – Recensione

Un romanzo ideato dall’autore di “Turnglass” e che tenta l’esperimento dell’apocrifo holmesiano ma con un risultato scarso. Molto scarso.

La cover di questo romanzo è una furbata: richiama il precedente libro di Gareth Rubin, giornalista inglese, che in Italia ha avuto un grande successo. Peccato che quello che ci troverete dentro un funziona per niente.

Sinister. La città delle ombre” è un romanzo uscito a settembre del 2024 edito da Longanesi ed era molto atteso dagli amanti di Sherlock Holmes. Rubin, infatti, ha deciso di cimentarsi con un apocrifo che, in sintesi, è una formula narrativa che prevede di riportare a nuova vita letteraria i personaggi di Doyle, seguendone lo stile, usandone i personaggi ma creando altre storie da inserire della time line del Canone holmesiano ossia l’insieme dei 4 romanzi e 56 racconti con protagonista il detective di Baker Street.

Perché il romanzo non funziona?

Rubin parte da un’idea molto valida: fare in modo che Holmes e James Moriarty, la sua nemesi, l’arcinemico per eccellenza dell’investigatore, si trovino a dover collaborare per un interesse superiore addentrandosi in una vicenda dai contorni che sfiorano la politica internazionale del 1889. Nel libro – il cui titolo originale e più sensato è “Holmes and Moriarty” – abbiamo due narratori: Watson e il colonnello Sebastian Moran, braccio destro del cattivissimo professore di matematica, cecchino di professione, ex militare e – successivamente nel canone di Doyle – personaggio di uno dei più bei racconti di Sherlock: “L’avventura della casa vuota“.

Il problema è che Rubin ha scritto un romanzo apocrifo come fosse un compito in classe: senza cuore, senza spirito, senza atmosfera. È come se non ci avesse creduto per davvero fin dall’inizio. Nonostante alcune scene molto belle, fra le quali quella centrale del doppio omicidio dal quale poi prende il via – con fatica – tutta la vicenda, la storia è un caos non da poco. Anche in questo romanzo come nel suo precedente, Rubin sfrutta l’idea di una doppia storia che si intreccia, ma l’espediente sembra tirato per i capelli e la misteriosa presenza di un pubblico sempre uguale in un teatro di second’ordine, alla fine porta davvero a poco.

Le scene d’azione non solo male, ma sono poche; Holmes non ha nulla della sua tridimensionalità solita e perfetta, Watson fa Watson ma nulla di più, i cattivi non hanno polso e quello che doveva essere uno dei perni del romanzo, ossia il mostrare cosa succede a mettere della stessa stanza Moriarty e Sherlock non decolla mai. I due hanno dialoghi molto brevi, sostanzialmente non interessanti e di quella profonda battaglia psicologica ma anche reale fra due facce della stessa medaglia (così come Doyle se le era immaginate nelle sue opere) non aggiunge assolutamente nulla. Per non parlare del titolo: non ho capito a cosa faccia riferimento, giuro.

Non è finita…

E poi arriva la cosa a mio parere peggiore: il personaggio del colonnello Moran. Rubin lo usa come uno dei narratori ma lo trasforma in uno sgherro da pub con un eloquio a dir poco sboccato e completamente lontano dal personaggio di Doyle e dal suo stile narrativo. Sebastian Moran ha una storia precisa: è figlio di un ex ministro, ha studiato prima ad Eaton e poi ad Oxford, ha scritto due saggi sulla guerra, è un cecchino e un giocatore d’azzardo. È un personaggio d’azione, vero, ma anche calcolatore e preciso. Rubin lo ha trasformato in un tipaccio che segue Moran con uno spirito vigliacco e che apostrofa Holmes chiamandolo “quella merda”. Capite bene se avete letto anche solo un romanzo di Doyle che si tratta di una stecca micidiale in una composizione melodica già barcollante.

Rubin usa la struttura dell’apocrifo ma, su Moran, non ne segue le regole. In tutto il libro usa un tono per questo personaggio che deraglia totalmente dallo stile degli scritti holmesiani pur volendone sfruttare personaggi, atmosfere e dinamiche. Questo lascia nel lettore una sensazione di spaesamento totale, soprattutto se si conoscono almeno un po’ le storie di Sherlock.

Gli apocrifi veri

Se volete leggere qualcuno che riporti in vita Holmes – e lo so solo io quanto ce ne sia sempre il bisogno – o un romanzo giallo-thriller avvincente, risparmiate questi 18 euro e passa e leggetevi “La soluzione sette percento” di Nicholas Meyer, “La casa della seta” di Horowitz oppure “Il caso del dottore“, uno dei racconti della raccolta Incubi e deliri (Sperling & Kupfer), firmata da Stephen King nel 1999 che trovate anche della raccolta di Mondadori “Il grande libro di Sherlock Holmes” pubblicato nel 2020. Se volete indagare un po’ il tema degli apocrifi, un buon saggio è “Le nuove mappe dell’apocrifo” di Luigi Pachì, direttore della collana di Sherlock dei Gialli Mondadori, in edicola ogni mese.