Dopo 27 anni Mondadori traduce “The Canary Trainer” dell’americano Nicholas Meyer, fra i più apprezzati apocrifisti del mondo.
Chi non ha letto almeno un apocrifo di Nicholas Meyer, si è perso dei gran bei libri: questa è la premessa alla recensione.
Meyer, autore americano e sceneggiatore di “cosine” tipo alcuni dei film di Star Trek, per capirci, ama profondamente il mondo holmesiano e questo emerge chiaramente dai suoi romanzi, compreso questo “The canary trainer” tradotto in italiano dopo una lunga attesa durata quasi trent’anni da Massimo M. Mazzoni per la collana Giallo Mondadori Sherlock.
Terzo dei quattro apocrifi creati da Meyer (il primo “La soluzione sette per cento è del 1974, il secondo, “Orrore nel West End” è del 1976 e l’ultimo, “The adventure of the peculiar Protocols” è del 2019) si tratta dell’unico che viene narrato dal punto di vista di Holmes e che ripercorre una delle avventure vissute dal nostro eroe durante gli anni del così detto “grande iato”, il periodo che va dal maggio 1891 all’aprile del 1894 e durante il quale il segugio londinese scompare dalle scene dopo lo scontro con la sua nemesi James Moriarty presso le cascate svizzere di Reichenbach.
Questi anni “vuoti” furono il risultato della ferrea volontà di Sir Arthur Conan Doyle che desiderava a bella posta la morte di Holmes, diventato una figura troppo ingombrante. Doyle agognava la giusta concentrazione al fine di dedicarsi alla sua vera passione, i romanzi storici, a suo dire più “impegnati”. Questo vuoto si è trasformato nel tempo in una sorta di grande foglio bianco nel quale hanno sguazzato scrittori di ogni nazionalità, riempiendo con memorie nuove di zecca gli anni “segreti” di Sherlock. Meyer è uno dei migliori nuotatori.
la trama
Dimenticatevi per un attimo Londra perché il romanzo si apre nella nuova residenza di Holmes, Burley Manor Far, nel Sussex: siamo nel 1912.
John Watson si reca a trovare l’amico, ormai ex-detective, ritiratosi in campagna a studiare e allevare api. Insieme a lui c’è la granitica signora Hudson che ha seguito Holmes in questa nuova vita, garantendogli la presenza di una padrona di casa coi fiocchi. Nelle tre settimane di villeggiatura presso l’amico, Watson, come capita spesso, scalpita: le api sono graziose e interessanti, va bene, ma lui in quanto biografo ufficiale vuole sapere una sola cosa: cosa è successo negli anni che Holmes ha trascorso lontano da Londra (e da lui, facendogli quasi venire un mezzo coccolone ripresentandosi all’improvviso in Baker Street dopo aver finto la sua morte)? Holmes gioca con la sua preda intellettuale da bravo felino qual è ma alla fine, probabilmente anche un po’ annoiato dall’ordinata società senza crimini delle operose api, cede e decide che racconterà al vecchio amico un solo episodio svoltosi durante il suo soggiorno (in incognito) a Parigi.
Qui Meyer fa le capriole, come sempre, tuffandosi e precipitando perfettamente il suo amato Sherlock in un’altra opera d’arte della letteratura (ed è per questo che i suoi romanzi sono a metà strada fra l’apocrifo e il pastiche). Sherlock fra le strade di Parigi, senza i suoi consueti riferimenti, quasi sperduto ma anche elettrizzato all’idea di poter fare ciò che vuole, si trova per una serie di strane circostanze ad essere assunto come primo violino (dopo regolare audizione) niente di meno che al Teatro dell’Opera di Parigi, l’Opèra Garnier. E qui, forse, se avete letto Gaston Leroux, sapete già dove andiamo a parare. Sherlock indagherà nei panni di Sigerson, sulla leggenda del Fantasma dell’Opera. Non credo serva dire molto altro per avere una sorta di cedimento delle ginocchia e correre a leggere il libro. Fra meravigliose cantanti, leggende, cunicoli segreti, musica, e un tocco di horror dai tratti gotici, Sherlock incontrerà una sua vecchia conoscenza che gli farà tremare i polsi: Irene Adler. Sì, lei.
Ma com’è questo romanzo, quindi?
La vicenda è particolare, Meyer è maestro nel fondere storia, leggende, miti e opere di altri grandi della letteratura senza troppe sbavature. Il romanzo è piacevole, anche se ha degli alti e bassi nel ritmo, forse dovuti alla scelta di far raccontare direttamente a Sherlock la vicenda (e non poteva essere altrimenti dato il periodo). Forse questo è un aspetto che spiazza un po’ gli appassionati holmesiani che sono abituati – per la maggior parte dei casi – a sentir narrare le vicende e il personaggio di Holmes da una voce terza. Holmes raccontato da se stesso appare più vulnerabile e anche meno “duro” di quanto non lo sia nel Canone di Doyle.
Senza anticipare assolutamente nulla, a mio avviso, anche i dialoghi e il rapporto con la Adler spingono Sherlock, anche se per pochi tratti (non si tratta del filone principale della vicenda) ad allontanarsi dalla sua natura più vera.
Le ultime cento pagine del romanzo sono magnifiche: una corsa a perdifiato in ambientazioni pazzesche, con ottimi colpi di scena e una storia che regge bene. Per chi ha letto “Il fantasma dell’Opera” c’è di che divertirsi, per chi non lo ha fatto (come me, sì lo so, lo leggerò, promesso) è stata una sorpresa continua e piacevole.
Non il migliore fra i romanzi di Meyer che per me rimane sempre “Soluzione sette per cento”, ma certamente una lettura da fare.
Consigliato: sì
Adatto agli sherlockiani: si
Da leggere più volte: no
Nicholas Meyer
Sherlock Holmes e il fantasma di Parigi
Mondadori (collana Giallo Mondadori Sherlock)
Euro 5,90