
Nel 1953 Chandler scrive l’ultimo romanzo in cui il suo Marlowe è davvero ancora quel personaggio indimenticabile, quell'”eroe necessario” che ha lasciato il segno in tutta la letteratura, non solo gialla e noir.
Non deve essere stato un tipo facile Raymond Chandler. Basta leggere i suoi romanzi ma soprattutto uno dei suoi interventi più famosi, La semplice arte del delitto (1944, The Atlantic Monthly) per sentire quella sensazione di spietata sincerità che a volte può mettere a disagio. Ma il disagio faceva parte della scrittura di Chandler, anzi, la scrittura era stata ciò che lo aveva salvato dalla sensazione di non appartenere a niente che lo aveva attraversato per bene quando negli anni Trenta lavorava nelle industrie petrolifere. Scrivendo, Chandler tornava se stesso, funzionava meglio. Le riviste pulp iniziarono ad ospitare i suoi racconti. Nel 1933 I ricattatori non sparano è il suo primo racconto su Black Mask, poi nel 1939 arriva Il grande sonno, arriva Philip Marlowe che non andrà più via dalla storia delle letteratura gialla, anzi della letteratura e basta.
Chandler VS Christie & Co.
So che per molti il sacro altare di Agatha Christie è tale, ma Chandler non la pensava così. La sua idea di noir, di giallo, apriva un’altra strada, o meglio ampliava e cementava definitivamente quella aperta da Dashiel Hammet che Chandler considerò in qualche modo il suo maestro. So che ve lo state chiedendo: sì, Doyle si salva, ma per un pelo.
“Conan Doyle ha commesso degli errori che hanno invalidato completamente alcune delle sue storie, ma è stato un pioniere, e Sherlock Holmes dopotutto è soprattutto un atteggiamento e qualche decina di righe di dialogo indimenticabili. Sono le signore e i signori di quella che il signor Howard Haycraft (nel suo libro Murder for Pleasure) chiama l’età dell’oro della narrativa poliziesca che mi deprimono davvero.”

Come spiega Carlo Oliva nel suo saggio I maestri del giallo (scritto a quattro mani con Massimo Bonfantini e pubblicato nel 2013) Christie, Sayers, Van Dine vengono “gentilmente maltrattati” da Chandler nella sua riflessione sul giallo e su che cosa significhi scrivere una storia di omicidio. Quello che lo scrittore americano cerca, quello che vuole trovare, è la verità, il realismo, uomini e donne di carne e sangue con veri problemi, con veri caratteri, omicidi credibili. Queste storie gialle classiche, spiega Chandler “sono troppo artificiose e troppo poco consapevoli di ciò che accade nel mondo. Cercano di essere oneste, ma l’onestà è un’arte“. E continua: “Se gli autori di questa finzione, tanto amati e ammirati, scrivessero del genere di omicidi che accadono, dovrebbero anche scrivere del sapore autentico della vita così come viene vissuta. E poiché non possono farlo, fingono che quello che fanno è quello che dovrebbe essere fatto. Il che è una petizione di principio, e i migliori di loro lo sanno”.
Il protagonista dei romanzi di Chandler, Philip Marlowe, è un detective privato, un “eroe necessario”, un uomo che, cosa effettivamente un po’ rara nella letteratura gialla “a puntate”, cresce, cambia, diventa quello che è senza provare a finger di essere altro e, alla fine, proprio in Il lungo addio mostra cosa significa essere un cavaliere errante, una persone con principi morali che non sono un vessillo, una posa, ma la propria stessa natura dalla quale non si scappa nemmeno se le conseguenze ti arrivano in faccia a suon di cazzotti.
Andai in cucina a preparare il caffè… fiumi di caffè. Denso, forte, bollente, spietato, corrotto. Il sangue degli uomini esausti.

Il lungo addio è un addio
Il romanzo esce nel 1953 e, secondo la critica, sarà davvero l’addio di Marlow che ricomparirà in un testo successivo, Ancora una notte, ma senza quell’intensità e quello slancio perfetto. Il lungo addio racconta dell’incontro dell’investigatore Philip Marlow con Terry Lennox, un ex soldato dai capelli bianchissimi – nonostante l’età – e dal viso sfregiato da grandi cicatrici. Lennox è ubriaco fradicio, e sua moglie lo sta spingendo fuori da una Rolls-Royce quando Marlow lo porta a casa sua, ed è così che nasce la loro amicizia che sarà il perno attorno al quale ruota tutta la storia gialla, una storia intricata ma orchestrata così bene da farvi pensare di non aver mai letto un altro libro così, un altro personaggio così.
Sono un romantico, Bernie. Odo voci gridare nella notte e vado a vedere che cosa succede. In questo modo non si guadagna un centesimo. Voi invece avete buon senso; chiudete le finestre e aumentate il volume del televisore.
L’effetto che avrà su di voi Marlowe – finito più volte sugli schermi anche con il volto di Bogart – sarà quello di un’amicizia che non siete in grado digerire subito ma quando lo avrete fatto, nulla potrà farvi dimenticare. La prosa di Chandler è spettacolare: asciutta, accurata, perfetta, calibrata, sincera, con dei picchi brevissimi ma incredibili di ironia. Ci sono delle frasi, dei dialoghi che non potrete fare a meno di sottolineare, rileggere, a cui ripensare e che vi feriranno: la disillusione di Philip Marlowe è quella che abbiamo provato tutti, almeno una volta nella vita.
Un’ora passò lentamente, strisciante, come uno scarafaggio in preda ai capogiri. Ero un granello di sabbia nel deserto dell’oblio. Ero un tiratore rimasto senza cartucce. Tre tentativi, tre buchi nell’acqua. Non li sopporto, gli insuccessi, quando capitano a tre per volta.
Il lungo addio è un noir, è un giallo bellissimo, ed è anche una riflessione autobiografica sul mestiere dello scrivere. Ci sono personaggi come Eileen Wade che non riuscirete a capire, esattamente come succede nella vita vera. Ci sono dialoghi bellissimi, leggeri e insieme densi come il catrame. Sentirete il fumo della pipa di Marlowe e vedrete la sua faccia zeppa di lividi. Condividerete con lui la delusione, scoprirete cosa significa lealtà. Saprete come dovrebbe essere un romanzo perfetto.
Raymond Chandler
Il lungo addio
Adelphi
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