Esordì con uno pseudonimo maschile e per molti la sua identità (anche sessuale) le creò timidezze e un’anima tormentata; suoi 8 gialli imperdibili.
di Roberto Cocchis
Pochi autori di romanzi gialli sono riusciti a essere così innovativi e non-convenzionali quanto Josephine Tey, la cui fama è però relegata in gran parte a una ristretta cerchia di intenditori.
La Tey, nata a Inverness in Scozia nel 1896, si chiamava in realtà Elizabeth MacKintosh ed esordì nella narrativa con uno pseudonimo maschile, Gordon Daviot, nel 1929. Solo dal quarto libro pubblicato, uscito nel 1936, adottò lo pseudonimo con cui è più nota.
Persona piuttosto riservata, la sua biografia lascia aperte non poche questioni. Si sa che era la maggiore delle tre figlie di un commerciante e di un’insegnante, che studiò Educazione Fisica in un college, che lavorò prima come fisioterapista in una clinica di Leeds e poi come insegnante in varie scuole private, che lasciò l’insegnamento in seguito a un incidente occorsole in palestra (fatto che le ispirò uno dei migliori romanzi, “Miss Pym”, che si mise a scrivere dopo essere tornata a casa per assistere il padre invalido dopo la scomparsa della madre) e che la sua riservatezza la portò ad allontanarsi da tutti i tanti amici che si era fatta, soprattutto negli ambienti del teatro, dopo che tra il 1950 e il 1951 le fu diagnosticato un tumore al fegato, malattia di cui morì a Londra nel 1952, prima di compiere 56 anni.
Il mistero di Alan Grant
Ciò che resta oscuro riguarda soprattutto gli aspetti interiori della sua personalità. Restò sempre nubile e, nei suoi romanzi, temi come l’ambiguità sessuale e le perversioni sono spesso presenti, anche se non trattati in modo esplicito, quanto piuttosto suggeriti in modo discreto. Tuttavia, le testimonianze dirette riferiscono di un grande amore vissuto in gioventù per un ragazzo che poi andò a combattere nella Grande Guerra e fu ucciso sulla Somme nel 1916.
Si fanno dunque due ipotesi prevalenti sull’origine dell’ispettore Alan Grant, il suo personaggio principale, protagonista di cinque dei suoi undici romanzi e presente anche in un sesto con un ruolo secondario. Una delle ipotesi vedrebbe in Grant una proiezione di ciò che la Tey stessa avrebbe voluto essere, e potrebbe essere corroborata dai problemi di identità personale che affliggono Grant nell’ultimo romanzo, “Sabbie canore”, pubblicato postumo dopo essere stato ritrovato in bozza tra le carte dell’autrice. La seconda è molto più romantica e struggente e presenta Grant come un personaggio modellato sulla figura dell’amato perduto prematuramente, la cui vita prosegue in letteratura a compensazione degli anni che non può più vivere nella realtà.
Oltre a quelli già visti, altri temi cari alla Tey sono la facilità con cui si crede ad apparenze fasulle, specie quando mostrano ciò che si vorrebbe vedere; i cambi di identità e i travestimenti; l’uso strumentale delle bugie per manipolare una o più persone; i segreti nascosti dietro le situazioni apparentemente più insospettabili. In questo senso la Tey è la prima innegabile antesignana di una generazione di grandi gialliste capaci di scavare a fondo nella psicologia criminale e nelle più recondite ragioni che possono indurre non solo a commettere dei delitti, ma anche a subirli o a smascherarli: come, ad esempio, Patricia Highsmith, Margaret Yorke, Margaret Millar e soprattutto Ruth Rendell, che ha portato questo genere di romanzi fino ai vertici della narrativa contemporanea, travalicando i limiti del genere.
Le opere
La Tey, si diceva, ha scritto undici romanzi (più la biografia di un personaggio storico, il visconte di Claverhouse, e dodici opere teatrali, delle quali solo quattro sono state rappresentate nel corso della sua vita, peraltro con buon successo), ma solo otto di questi sono gialli. Tutti questi otto gialli sono stati tradotti in Italiano, anche se non sono tutti reperibili con la stessa facilità e infatti si spera che qualcuno si decida a ristampare (e forse anche a ritradurre, visto che probabilmente la prima volta furono proposti in versioni tagliate) quelli finiti fuori catalogo.
La figlia del tempo
Il libro che è considerato il suo capolavoro assoluto, che oggi si può leggere in edizione Sellerio, è “La figlia del tempo” (titolo tratto da un antico proverbio inglese: “La verità è figlia del tempo”), un giallo molto atipico concepito però come un romanzo in cui si svolge, alla metà del XX secolo, un’indagine su un fatto storico del XV secolo. Non un fatto storico qualunque ma uno dei più importanti misteri lasciati in eredità all’Inghilterra dalle oscure trame dei suoi secoli passati: la scomparsa dei principini dalla Torre di Londra, ufficialmente tra la primavera e l’estate del 1483, mentre erano sotto la custodia dello zio paterno, il principe Riccardo di Glouchester, appena salito al trono con il nome di Riccardo III.
In pratica, l’ispettore Grant, mentre si trova ricoverato in ospedale per la frattura di una gamba dopo un incidente subito durante l’inseguimento di un malvivente, ammazza il tempo dedicandosi soprattutto alla lettura di libri di Storia, una materia che lo affascina molto. Trovandosi davanti alla figura del principe reietto Riccardo III, che un’intera e compatta tradizione vuole assassino dei suoi nipoti allo scopo di occupare il loro posto nella successione al trono, Grant scopre improvvisamente di avere dei grossi dubbi sul fatto che le cose siano andate esattamente come gli è stato sempre insegnato a scuola e come è sempre stato mostrato dalle più svariate fonti, a partire da Shakespeare. E la prima cosa che scopre è che Shakespeare (così come Thomas More che lo ispirò) sostiene una cosa falsa, ossia che Riccardo fosse nano, gobbo e storpio (uno scheletro rinvenuto nel 2012 a Leicester, dove Riccardo fu sepolto dopo essere stato ucciso durante la battaglia di Bosworth nel 1485, e successivamente identificato come quello del re, mostra che al massimo soffriva di una certa scoliosi). Successivamente, Grant si rende conto che tutti i documenti originali che trattano della figura di Riccardo sono posteriori di diversi anni alla sua scomparsa e che i primi tra questi, che hanno rappresentato la base di quelli successivi, sono tutti opera di fedelissimi cortigiani di Enrico VII Tudor, il vincitore di Bosworth e successore di Riccardo sul trono inglese. Ricontrollando con occhio da poliziotto i possibili moventi che potevano indurre a eliminare i principini, poi, appaiono più realistici quelli di Enrico piuttosto che quelli di Riccardo. Con l’aiuto di un amico storico, Grant ricostruirà una versione alternativa a quella che normalmente viene raccontata, affrontando anche, con considerazioni tutt’altro che banali, il tema di quanto sia facile manipolare la Storia passata per chi detiene il potere o calunniare le persone morte che non possono più difendersi.
Lo stile della Tey non è mai serioso o verboso, anzi la lettura di tutti i suoi libri viene agevolata dal suo umorismo raffinato e gentile, come si confà a una scrittrice colta senza essere pedante e sicura del proprio talento narrativo.